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La proletarizzazione della professione

Sul numero sette dello scorso anno, parlando delle imminenti elezioni per il rinnovo degli organi della Cassa forense, titolavo , auspicando una inversione di rotta da parte della classe dirigente forense che arginasse il disastro economico per gli avvocati e la crisi della giustizia di cui la proletarizzazione della professione è una delle cause fondamentali, anche se non l’unica.
Alcuni amici colleghi, attenti osservatori, interpretarono quell’articolo come il segnale di una mia candidatura per quella tornata elettorale, facendomi gradite offerte di inserimento in lista che declinai in quanto il mio discorso non aveva quell’obiettivo, bensì quello più ambizioso di far comprendere all’avvocatura che si era arrivati ad un punto di non ritorno.
Invero, mentre i colleghi del Lazio, unendosi in una lista unitaria, con numeri di gran lunga inferiori alla potenzialità del foro romano sono riusciti a scalzare dalle poltrone cui erano incollati i colleghi capitolini, questi ultimi hanno dimostrato di non aver colto nemmeno il senso del mio messaggio, frazionandosi in ben otto liste che, nel loro complesso, esprimevano solo l’ambizione di potere dei loro leaders.
Il progetto di riforma della professione forense all’esame del Senato, nel porre dei limiti logici all’accesso della professione e nel cercare di imporre ai professionisti una migliore qualificazione, ha il pregio intellettuale di aver compreso che occorre procedere in controtendenza, ma, se approvato, non risolverà il problema della dignità sia della professione che della giustizia alla cui realizzazione la stessa costituzionalmente tende.
L’aver istituzionalizzato il business delle scuole di specializzazione senza aver affrontato il problema della impreparazione dei loro docenti e della vigilanza sulle stesse giustifica l’impopolarità del progetto tra gli avvocati, ma il limite vero dello stesso è la visione arcaica che ne ispira molte disposizioni.
Uno dei problemi del nanismo della professione forense italiana è il sistema tariffario, ancorato non già al numero delle ore prestate, ma agli adempimenti eseguiti in una logica soppressa nel diritto italiano con la figura del procuratore legale. L’esperienza aziendale insegna che, per creare delle realtà competitive, occorre unire risorse differenti tra di loro.
Orbene i criteri di valutazione delle aziende sono sostanzialmente omogenei, tanto che il valore di un’impresa può essere stimato giudizialmente tramite una consulenza tecnica: viceversa è di fatto impossibile dare un valore ad uno studio legale.
Ciò in quanto l’anacronistico sistema tariffario impedisce di attribuire un valore determinabile all’attività di ogni avvocato, associato o collaboratore. Nel sistema tariffario statunitense, basato sulle ore fatturate al cliente, il professionista vale per la tariffa oraria con la quale le sue prestazioni sono pagate dal cliente e per le ore che riesce a fatturare.
Tale semplice ed omogeneo criterio consente di valutare le potenzialità reddituali dello studio e quindi il suo valore, atteso che gli altri elementi positivi e negativi (quali l’esistenza di macchinari, proprietà immobiliari, costi del personale, ecc.) sono i medesimi di una azienda commerciale. Rende quindi realizzabile una fusione, consentendo di collegare sinergie omogenee, ridurre costi e utilizzare risorse per coprire fette di mercato altrimenti preda di concorrenti.
Peraltro un simile sistema renderebbe il professionista maggiormente propenso al rispetto della normativa fiscale, sia per l’oggettiva maggiore possibilità di controllo da parte degli uffici fiscali (la tariffazione oraria presuppone l’annotazione continua e costante dell’attività prestata in un sistema elettronico), sia per i vantaggi che potrebbero a lui derivare da una corretta valorizzazione del proprio studio.
Anche perché le fusioni o le associazioni tra professionisti sono ormai indispensabili dato che il mercato non lascia spazi ai singoli professionisti che vedono le grandi aziende affidare la loro assistenza a strutture internazionalmente organizzate.
Il progetto di riforma, oltre a favorire il business delle scuole di specializzazione, non è privo di anacronismi, lì dove reintroduce il divieto del patto di quota lite; tuttavia ha il merito di di attribuire agli Ordini la potestà di creare nel proprio seno strutture arbitrali finalizzate alla deflagrazione del contenzioso giudiziario e di ridare loro un ruolo di rappresentanza degli interessi della categoria, definendoli .
Si tratta di una formula che ha un precedente giuridico nella riforma della professione di commercialista e che potrebbe essere applicata anche ad altri enti pubblici con realtà associative e di volontariato ancora disciplinate da leggi approvate in vigenza del sistema corporativo fascista (quale, ad esempio, la Croce Rossa Italiana), e.
Nei suoi aspetti positivi e negativi il fatto essenziale è che la riforma non risolve il problema di fondo, che va quindi affrontato privatisticamente, costituendo in seno alla categoria un’elite che ne prenda per mano le sorti attraverso un progetto economico professionale.
A latere del CNF è necessario creare una sorta di Consiglio Superiore dell’Avvocatura, composto da professionisti che abbiano il coraggio di investire nei propri studi al fine di assicurare un futuro agli stessi, ai propri collaboratori ed ai propri figli, creando regole interne, sistemi informatici e criteri di operatività che si pongano in concorrenza economica con gli studi internazionali e rendano fuori mercato chi tenta di operare con sistemi tradizionali, magari part time, con lo studio in casa e con la segretaria in nero, dichiarandosi contribuenti minimi.
Sono cosciente che si tratta di una proposta impopolare che non porta voti alle elezioni forensi: ma non si può pensare di assicurare dignità alla toga e funzionalità alla giustizia senza avere le strutture.
Le guerre si possono combattere solo se si hanno gli strumenti per farlo: l’eroismo produce miti, ma non vittorie, come i ragazzi di El Alamein ci hanno insegnato nella seconda guerra mondiale.

Di Romolo Reboa Avvocato del Foro di Roma

 

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